Luoghi degli eventi storici: 1860 – Moti antiborbonici (Convento della Gancia)
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Descrizione

Luoghi degli eventi storici: 1860 – Moti antiborbonici (Convento della Gancia)

 

Il luogo fa parte dei Luoghi degli eventi storici dell’ottocento inseriti nella “Carta regionale dei Luoghi dell’Identità e della Memoria” (LIM) istituita dalla Regione Sicilia con il  D.A n. 8410 del 03/12/2009. Il settore di riferimento è quello relativo ai “Luoghi degli eventi storici dell’ottocento – 1860 – Moti antiborbonici – Rivoluzione popolare guidata da Francesco Riso

Già il 3 aprile 1860, le colline del distretto di Palermo furono scenario di un primo episodio rivoluzionario. A Boccadifalco, infatti, sulle alture del versante che affaccia sulla valle di Baida, alcune bande armate fronteggiarono due compagnie del 9º battaglione del Real Esercito delle Due Sicilie agli ordini del capitano Simonetti. Dopo non poca resistenza, i rivoltosi furono sconfitti e dispersi.

La fiamma della rivolta, però, si accese in città, a Palermo, il 4 aprile, con un nuovo episodio rivoluzionario, anch’esso subito represso, che ebbe tra i protagonisti, sul campo, Francesco Riso e, lontano dalla scena, Francesco Crispi, che coordinò l’azione dei rivoltosi da Genova.

Il convento della Gancia

Quale centro delle operazioni fu scelto un convento di frati minori Osservanti, il Convento della Gancia, dove il Riso, da qualche tempo, aveva cominciato, con l’appoggio dei religiosi, ad ammassare armi e munizioni. Nella notte tra il 3 e il 4 aprile, i rivoltosi, una sessantina circa, si introdussero nel convento, dove attesero il mattino per dare inizio all’insurrezione. Alle 5, infatti, il suono a stormo delle campane della chiesa, che avrebbe dovuto fungere da segnale anche per i gruppi armati appostati sulle montagne, diede avvio ai primi colpi d’arma da fuoco. Il capo della polizia di Palermo, Salvatore Maniscalco, non si fece, però, trovare impreparato. Egli, infatti, informato il giorno prima da uno dei frati, Padre Michele da Sant’Antonino, aveva fatto appostare i militari borbonici del 6º Reggimento di linea nei pressi del convento. I soldati penetrarono nel convento soffocando sul nascere l’insurrezione: tra i rivoltosi si contarono 20 vittime, tra cui un frate. Francesco Riso, ferito, morì in ospedale. Altri 13 uomini furono tratti in arresto.

Si salvarono due patrioti: Gaspare Bivona e Francesco Patti, i quali trovandosi nel convento si nascosero sotto i cadaveri e riuscirono quindi a fuggire tramite un foro praticato sul muro esterno (da allora chiamato buca della salvezza) e grazie all’aiuto di alcune popolane che inscenarono un finto litigio per distrarre le truppe borboniche. Nei giorni successivi, in città, si fecero preoccupanti le avvisaglie di una nuova sollevazione e ciò contribuì a rendere esemplare la sentenza per i rivoltosi della Gancia: furono tutti fucilati senza processo, il 14 aprile 1860, come monito.

I tredici sventurati furono condotti dal Castello a Mare, dove erano tenuti prigionieri, a pochi passi da lì, presso un bastione della porta S.Giorgio (per dare un’idea, tra la chiesa di S.Giorgio dei Genovesi e l’attuale Piazza XIII Vittime). I condannati vennero condotti con un velo nero sul viso, scortati dai soldati borbonici e da tredici “accompagnatori” che li sorreggevano, presi a caso tra la gente per strada. Poi, giunti al luogo dell’esecuzione, furono fatti inginocchiare, e davanti a loro stavano tre file di soldati, composte ognuna da tredici unità. Nessuno dei condannati versò lacrime… Al segnale di far fuoco, la prima fila sparò e si ritrasse. Poi fu la volta della seconda fila a sparare. Incredibilmente, uno dei condannati, Sebastiano Camarrone, era ancora illeso dopo due raffiche, cosa che secondo le allora leggi di guerra, gli doveva garantire salva la vita. Ma non fu così. Avvicinatisi a lui, gli ufficiali borbonici, gli strapparono dal collo un crocifisso e un sacchettino con oggetti religiosi che teneva al collo, poi diedero l’ordine di sparare anche alla terza fila, che ultimò l’eccidio… Da lontano, una folla di gente, probabilmente parenti dei giustiziati, urlava, ma non fu fatta avvicinare al luogo della strage. A causa dei proiettili ricoperti di cera, si sprigionarono delle fiamme che potevano ardere i corpi già defunti dei tredici, e allora vennero fatte avvicinare alcune donne con dei secchi d’acqua per spegnere il fuoco che rischiava di espandersi. Per i cadaveri erano state preparate quattro casse di legno, dove vennero ammassati a tre a tre i corpi, ma nell’ultima dovettero introdurne quattro, per il numero dispari dei caduti. Infilato a forza anche l’ultimo corpo, col sangue che cadeva giù dai carretti dove furono caricate le casse coi tredici cadaveri, alle truppe napoletane fu ordinato di evitare il seppellimento a S.Spirito, in quanto per raggiungere quel cimitero, il corteo avrebbe dovuto attraversare in pratica tutta la città, col rischio di disordini. Si decise allora di dare sepoltura ai tredici martiri al cimitero dei Rotoli, dove furono gettati in un carnaio comune.

 (Fonte:wikipedia)

Inserimento scheda: Ignazio Caloggero

Foto: web

Contributi informativi:  Ignazio Caloggero, Web 

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