Cena di San Giuseppe a Santa Croce Camerina
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Descrizione

Cena di San Giuseppe a Santa Croce Camerina

 

La celebrazione della festa di San Giuseppe risale al 1832, quando il Barone Guglielmo Vitale, dopo la sua morte, lasciò alla Chiesa Madre la rendita di tre vignali per solennizzare la festa del Patriarca. In questa occasione si preparavano grandi tavolate, le cosiddette “Cene”, che ancora oggi i fedeli offrono al nostro amato Santo per devozione o grazia ricevuta.
Su una coperta variopinta, che fa da cornice alla tavolata, si fissano delle arance amare e dei limoni. Al centro si sistema un piccolo altare sul quale viene posto un quadro raffigurante la Sacra Famiglia, davanti al quale viene acceso una lampada ad olio “a lampa” e ai lati “u lauri” il grano fatto germogliare al buio. La tavola viene imbandita con semplicità: piatti caratteristici come “baccalà”, “polpette di riso”, “frittate agli asparagi”, “pastizzi” di spinaci e uva passa, vari tipi di biscotti e dolci come “cubaita”, “torrone”, “scaurati”,”cicirieddi”,”mastazzola”, “mustata”, primizie ortaggi e fiori profumati quali “fresia e balicu”. L’elemento principale della tavola è il Pane di San Giuseppe, detto anche “pani pulitu”, di diverse e particolari forme simboliche, lavorato e decorato da mani abili ed esperte, entrato a far parte dei beni immateriali della Regione Sicilia con decreto n.8184 del 4 Novembre 2005. Viene servita ai tre Santi la Tipica Pasta di San Giuseppe: “a principissedda”

Fonte: Comune di Santa Croce Camerina

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Scheda tecnica elaborata da: Regione Sicilia – Dipartimento dei beni culturali e dell’identità siciliana – CRicd: Centro regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione e filmoteca regionale siciliana 

N. Prog. : 103
 
Libro: REI – Libro delle celebrazioni
Data approvazione : 16-11-2007
Categoria : Festa patronale
Provincia : Ragusa
Comune : Santa Croce Camerina
 
Notizie Cronologiche
La tradizione della Cena di San Giuseppe risale al 1832, quando il Barone Guglielmo Vitale, dopo la sua morte, lasciò alla Chiesa Madre la rendita di tre vignali per solennizzare la festa del Santo, protettore del comune. In questa occasione si prepararono grandi tavolate, le cosiddette Cene, che ancora oggi i fedeli offrono al Santo per devozione o per grazia ricevuta.
Ricorrenza: Annuale : Data : 19 Marzo
Occasione : Festeggiamenti in onore di S. Giuseppe
Funzione : Devozionale/Patronale
Attori : Devoti al Santo, principalmente donne, che hanno sciolto un voto o ricevuto una grazia
Partecipanti : Comunità locale, turisti
Descrizione: 
Il rituale di preparazione inizia il primo venerdì di marzo quando si procede alla semina de u lauri, il grano (i cosiddetti “giardini di Adone”), che si tiene umido e al buio, operazione ritenuta fondamentale alla preparazione del rituale della Cena, con chiari riferimenti ai riti solstiziali e alle feste agricole della fertilità con l’offerta delle primizie, l’ostentazione dei prodotti, l’orgia alimentare.
La settimana prima si iniziano a confezionare alcuni cibi da disporre nella tavola: per ogni voto bisogna eseguire tre grandi ciambelle di pasta, dette ucciddati, di circa 7/8 KG ciascuna, destinati a 3 poveri del paese, scelti dalla famiglia tra le persone più bisognose del paese, che il 19 rappresenteranno i “Santi” Gesù, San Giuseppe e Maria. Tra la sera del 17 e il 18, si inizia ad apparecchiare la tavola: ad una parete si fissa una coperta variopinta su cui si appende un quadro della Sacra Famiglia, davanti al quale viene accesa una lampada ad olio (a lampa), e tutt’intorno si decora con festoni di edera, grappoli di arance amare e limoni con foglie verdi; su uno scalino che funge da altare, ricoperto con tela di lino, si dispone un crocifisso con ai lati i piatti di grano germogliato. Ai piedi del crocifisso si poggia un pane raffigurante la varba, la barba di San Giuseppe, e tutt’intorno altri pani, il cosiddetto pani pulitu, raffiguranti u vastuni (il bastone) fiorito del Santo, le iniziali S e G, la Sacra Famiglia, a spera (la sfera), un cagnolino, un galletto, delle pere, un grappolo d’uva. Tutti gli elementi utilizzati per la decorazione della tavola/altare hanno una valenza simbolica: i ucciddati rappresentano l’uguaglianza tra gli uomini, a spera l’ostensorio, u vastuni fiorito la regalità del Santo, a varva il volto del Santo, a lampa la fede, u lauriil lavoro umano, le arance amare e i limoni le avversità della vita.
Tra ceste di primizie, vasi di fiori e grossi ceri, sono distribuiti vari tipi di biscotti locali, dolci, tra cui icicirieddi, di farina e miele, la mostarda, la cubbaita, di miele e sesamo a forma di aquila monocipite, pasticci di spinaci e uva passa (pastizzi), verdure cotte, polpette, baccalà, olive, vino, frutta secca. La sera del 18 la tavola è imbandita e nulla si può togliere o consumare, fatta eccezione per qualche donna incinta alla quale appetisce un cibo particolare. La mattina del 19 si spigna la cena, ovvero si toglie il primo cibo dalla tavola per donarlo al Patriarca, da vendere in piazza all’incanto davanti la Chiesa Madre: in tale occasione vengono venduti prodotti tipici e di artigianato il cui ricavato è devoluto alla parrocchia e servirà per l’organizzazione delle manifestazioni religiose. Fino a quando non “mangiano i Santi” però nulla può essere toccato. Intanto chi ha fatto il voto prepara il bastone del Santo con legno di oleastro disponendovi in cima arance amare con foglie, nastri e l’immagine di San Giuseppe. I tre “Santi” con una corona di alloro in testa, tenendosi per mano, si recano in chiesa per la benedizione, insieme ad un componente della famiglia che ha promesso la cena e che li segue a piedi scalzi. Quando si torna verso le case per consumare i cibi, la marcia della banda musicale avverte i familiari che sprangano la porta di casa. I “Santi” bussano 3 volte alla porta di casa senza ricevere risposta fino a quando il Patriarca dice: “Gesù, Ggiseppe e Maria, o rapi tu o rapu iu!” (Gesù, Giuseppe e Maria, o apri tu o apro io!). A questo punto si apre la porta, appena entrati i “Santi” si lavano le mani con latte e vino e quindi San Giuseppe impartisce la benedizione: “Accantu accantu c’è l’Ancilu Santu, u Patri, u Figghiu e u Spiritu Santu!” (Accanto accanto c’è l’Angelo santo, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo!). Si recita allora un Ave Maria e un Padre Nostro e poi si offrono i cucciddati ai “Santi” che seduti a tavola iniziano il banchetto insieme a coloro che si recano a visitare la Cena.
Se non hanno altri inviti i “Santi” tornano nelle loro case portando via un piatto con un po’ di cibo avanzato, se hanno ricevuto altri inviti bisogna invece che si rechino nuovamente in chiesa per farsi benedire e ricominciare il rito.
I festeggiamenti durano quindi diversi giorni e prevedono anche la processione del simulacro di San Giuseppe per le vie del centro, la sagra dei fiori, la degustazione dei prodotti tipici, la musica in piazza e i giochi di artificio finali.
 
 
 
Bibliografia
Giallombardo, Fatima. Festa di S. Giuseppe in Sicilia, vol. 1. Archivio delle tradizioni popolari siciliane, 5. Palermo: Folkstudio, 1981.
 
Giallombardo, Fatima. 2003. La tavolata l’altare la strada. Scenari del cibo in Sicilia. Palermo: Sellerio Editore.
 
Pitrè, Giuseppe. Feste patronali in Sicilia. Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane, 11. Sala Bolognese: Forni Editore, 1979.
 
Pitrè, Giuseppe. Spettacoli e feste popolari siciliane. Biblioteca delle Tradizioni Popolari Siciliane, 12. Bologna: Forni Editore, 1980.
 
Uccello, Antonino. 1976. Pani e dolci di Sicilia. Palermo: Sellerio.
 
  
Note
Alcune famiglie preparano la Cena di San Giuseppe anche per incarico di parenti emigrati negli Stati Uniti, tra i quali si ricordano i camerinesi di Patherson che hanno rinnovato la festa fin dagli inizi del 1900, i quali inviano delle somme di denaro non riuscendo più a soddisfare la promessa fatta al Santo.
 
La devozione nei confronti di San Giuseppe è legata ad un evento miracoloso: la statua secondo la tradizione locale giunse, nel XIX secolo, dal mare nella spiaggia di punta Braccetto, che dista circa 6 km dal Comune di Santa Croce di Camerina. La statua venne trasportata dai contadini nella contrada S. Martino dove fece scaturire una fonte di acqua corrente. Quando gli uomini, stanchi e assetati, riempirono per dissetarsi una brocca di terracotta (quartara), l’acqua si trasformò in vino, rinnovando il miracolo delle nozze di Cana. A questo punto i contadini, spinti dall’evento straordinario, trasportarono la statua nella Chiesa Madre, dove tutt’ora è venerata.
Autore Scheda : Maria Rosaria Paterno’

 

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